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Spazzacamini in Art or
Child Labour, Social Conscience and
19th Century Italian Painting






In 1832 the Italian patriot, writer and educator Achille Màuri (http://www.treccani.it/enciclopedia/achille-mauri) published his novella Gli Spazzacamini for the very first time. In a Milanese newspaper and at a time when Milan was still Austrian ruled. In 1837 the novella re-appeared in print, and, inspired by the very novella or not (and it might also be that the novella was originally inspired by paintings), these are also the very years when Italian painters, working in Austrian ruled Lombardy, begin to render the motif of the (young) chimney sweeper. Which is to say that painting begins to deal also with the kind of child labour that the profession of the chimney sweeper involved at the time, because it resided with small young boys to climb up the chimneys as living brooms, a destiny that Charles Dickens’ Oliver Twist only by a narrow margin escaped (see: http://en.wikipedia.org/wiki/Chimney_sweep).
To the memory of this kind of child labour, that still existed in the 20th century, also a 20th century book for adolescents has been dedicated (http://en.wikipedia.org/wiki/Die_schwarzen_Brüder) whose scenery is set also in these very years (1838ff.) and in Milan. But we would like to recall here how a 19th century writer, aiming to arouse his fellow patriots’ social conscience and to lead them
into the social sphere of Milanese chimney sweepers, rendered the subject, and to juxtapose this re-edition of an almost forgotten novella with paintings of the time.
May everyone think about what social conscience can do or can not do (and primarily about what it
can do), and about a social conscience of art that, possibly, is hidden in seemingy only picturesque 19th century genre scenes.




Achille Màuri

GLI SPAZZACAMINI



(Source: Achille Màuri, Racconti, 1845)


Spazzacamin che va gridando,
Va gridando il suo mestier.
Canzone popolare.



I.


lo amo gli spazzacamini e gli stimo. Queste colonie di montanari, che lasciano il ciel sereno e la pace de’loro monti, e spinti dal pungolo della miseria vengono nelle nostre città ad esercitarvi un mestiere cosi faticoso; che sono tanto diversi dalle nostre plebi negli abiti, ne’costumi, ne’modi; che vivono separati in certo modo dal commercio degli altri uomini, come i Parias dell’lndia; che sono per consueto segno al dileggio della nostra marmaglia, e tuttavia mostrano tanta rassegnazione, tanta pazienza, e una ilarità cosi schietta e un’ operosità cosi perseverante, mi paiono la prova più manifesta di quel che può l’abitudine de’patimenti e della fatica, la prova del coraggio ch’essa inspira e della tranquilla mansuetudine ch’essa infonde ed alimenta. Gli amo, perchè son miseri: gli stimo, perchè li veggo sopportare con tanto coraggio la loro miseria. Spesso io mi fermo tra via a guardarli, quando a coppia a coppia vanno correndo la città in cerca di lavoro. Sono per ordinario un uom maturo e un ragazzetto: quegli precede e intuona la malinconica cantilena; questi se gli trascina dietro e la ripete: ne’volti d’ambi due, anneriti dalla fuliggine, e specialmente ne’ loro occhi, che brillano fra quel nero più vivaci, è agevole discernere l’espressione della pazienza e della calma. Ed io li vo contemplando; e parmi che l’ uno mi dica con piglio semplicemente grave: Ho durata cinquant’anni questa vita di spazzacamino, e mai non mi sono lamentato della Provvidenza. E l’ altro con un piglio gaio e spensierato: Anch’io sono spazzacamino, e sarò allegramente spazzacamino tutta la vita, come fu mio padre. – E a questa vista e in questi pensieri taciono in me tutte le superbie letterate: io mi raggomitolo nella vanità dell’esser mio, e tristamente mi dico: Perchè non puoi tu avere almanco la tranquillità e la pazienza del povero spazzacamino?
Ma io non vi ho detto ancora, o miei benigni lettori, la ragione principale, per cui voglio un sì gran bene agli spazzacamini: ell’è che a uno spazzacamino io debbo un degli esempi più preclari di virtù che m’abbia avuti in mia vita.
Molti anni fa, quand’ ero ancora ben giovine, m’avvenne di passare, una rigida mattina di dicembre, per quel bistorto vicolo Porlezza, che dalla solinga contrada di San Vincenzino riesce a quella che si denomina dall’antica milanese famiglia de’ Meravigli, ed a cui il volgo nostro ha posto di recente il nome di contrada de’ milioni, perchè vi hanno stanza alcuni de’più ricchi negozianti e banchieri. A mezzo del vicolo distesa sul terreno giaceva una povera donna con a canto due figliuoletti. Ell’era intormentita dal freddo, estenuata a occhi veggenti dalla miseria e dal lungo digiuno, e recava impressi sul volto scarno e ingiallito i segni di quella fiacchezza che vien dallo stento. Anco i due fanciulli erano sì magri e pallidi e stecchiti, che non si vedeva sulle facce loro alcuna traccia di quella dolce espressione di candore, di quell’ingenua ilarità, che presta ai lineamenti dell’ infanzia tanta grazia e tanto affetto. Essi tendevano le loro manine, ignari di ciò che significasse quest’ atto pietoso; ma bastava guardarli per sentirsi mossi a misericordia. E si stringevano presso l’infelicissima madre loro, e piangendo gridavano: Pane, mamma: abbiamo fame.
A questo doloroso spettacolo il mio cuore di quindici anni tutto si commosse, quand’ecco, dal prossimo vicolo di San Giovanni sul Muro, vidi venire a quella volta un piccolo spazzacamino, che si fermò anch’ egli nel cospetto di quel compassionevole gruppo. Era un ragazzino, che poteva avere un nove anni, bello come può essere uno spazzacamino, come il più bello di quelli che dipinge quel bizzarro nostro Molteni (http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Molteni), svelto, mingherlino, con due occhi lucentissimi, che avevano una singolare espressione di brio e di bontà. Moveva certo dal vicolo anzidetto, ove aveva ed ha stanza una colonia di spazzacamini, che vive, Dio sa come ammonticchiata in due così luride stanzacce, ch’è una pietà a vederle; ed aveva in mano un grosso tozzo di pan di tritello, ch’ era la sua provvigione della giornata, e sel veniva mangiando con indizj di molto appetito. Ed ecco che all’ aspetto di quella donna e di que’fanciulletti restò come percosso da una pietà insolita, e i suoi occhi perdettero l’espressione del brio per serbar solo quella della bontà, e tutto il suo volto divenne la rivelazione d’un buon cuore fortemente commosso. Egli s’accostò più da presso ai giacenti: guardò me, guardò loro, guardò il suo pane: poi come eccitato da un pensiero subitanco, divise il suo tozzo in tre pezzi, e ne diede uno alla madre, e due men grossi a’ ragazzini: indi con un’aria di letizia, che annunziavà quanto fosse contento di sè, si tolse a’ringraziamenti de’suoi beneficati, e si ripose in via intuonando la sua cantilena.
Io non saprei dire qual rimanessi a tal atto di misericordiosa carità. Corsi dietro al ragazzino: »E che resta – gli chiesi – che resta a te per sostentarti in questa giornata?«
»Niente – mi rispose – ma il Signore mi provvederà: e se avessi anco da rimanere fino a notte senza mangiare, il Signore mi darà forza e non morirò: ma la mia mamma la m’ha sempre detto che bisogna fare la carità, quando si può, a quelli che sono più poveretti di noi; che il Signore la rende in questa o nell’altra vita. Ed io ho fatto come m’ha insegnato la mia mamma.«
Io ho veduto assai tratti di cordiale beneficenza: ho veduto il ricco aprir generosamente la sua borsa al poverello, e largheggiargli con nobile pudore i doni della carità: ho veduto il sacerdote al letto dell’infermo intento a sollevarlo dalle angosce della miseria, a raddolcirgli l’ambascia del dolore e dell’abbandono, a rendergli men gravi le pene dell’anima immortale che soffre e si purga: ho veduto donne leggiadre e delicate, cresciute fra gli agi, avvezze alle pompe ed alle squisitezze del lusso più sfolgorato, entrare ne’ tuguri dell’ indigenza, e mettervi in atto le inspirazioni più ingegnose ed ardenti della pietà. Ma nessun atto di carità ha destato in me un senso così dolce d’ammirazione e d’amore, come quello del mio povero spazzacamino. Ed ogni volta che m’ è tornata alla mente la sua immagine, io mi son sentito migliore: ho provato, a così esprimermi, un senso di virtuosa emulazione: ho compreso quanto sia dolce l’idea di sollevare una creatura umana.
– Povero spazzacamino! che non darei per conoscere il tuo nome, per ripeterlo a’ miei fratelli, per invocarlo come quello d’ un angelo tutelare? Ma tu passerai ignoto su questa terra, dove solo la vera virtù non leva rumore: bensì vivrai di certo felice nella tua oscurità, ignaro dei desiderii e delle colpe dell’ambizione, nella pace dell’anima, nel tranquillo esercizio del bene, rassegnato, ilare, contento. Ah! questa è tal beatitudine, a petto di cui svaniscono tutte le illusioni della vanità. Si: è dolce nell’età delle lusinghe l’abbandonarsi a que’bei sogni della fantasia, che tutto promette ed assicura: ma vengono poi i giorni del disinganno; e allora, oh! allora diventa invidiabile anco il povero spazzacamino.




(Pictures: lombardiabeniculturali.it; arcadja.com)




II.


Voi vedete dunque, amici lettori, ch’io ho gran ragione di voler bene agli spazzacamini. Or avete a sapere che la mia buona fortuna mi favorì col darmi, non ha gran tempo, un’ occasione propizia d’ essere giovevole a un di loro. Vi ricordate di quelle sere d’inverno, quando si stende sulla nostra città quella nebbia sì fitta, che quasi impedisce di ravvisar le persone a due passi di distanza. Ebbene, una di quelle sere io camminava poco dopo l’Avemmaria per le vie di Milano, in compagnia di certi pensieri che non erano i più lieti; e provava un mesto piacere nel vedermi dalla nebbia quasi ridotto a solitudine in mezzo alla nostra popolosa città; e sbadatamente contemplava quel curioso effetto di luce, che vien prodotto dal lume de’ fanali in mezzo alla nebbia; e mi dava un singolar diletto quell’ udir le voci di persone che non vedeva, e che mi percuotevano l’orecchio di suoni indistinti e strani. Così via via, e un passo dopo l’altro, come diciamo noi Milanesi, io mi trovai sul corso di Porta Tosa (http://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Vittoria_%28Milano%29) là dove si tiene il mercato delle erbe, là su quel rumoroso verzée, che è la sede delle grazie del nostro dialetto, e della porzione più originale forse della nostra plebe. Ivi pure regnava un gran silenzio, ed io veniva raffrontando quella quiete col frastuono che in tal luogo ferve in tutta quasi la giornata, e mi perdeva dietro la sequela de’ miei vagabondi pensieri. Quand’ ecco sentii vicino a me un suono come di gemiti e pianti; ond’io mi guardai intorno per vedere d’onde partiva. Accostatomi al muro, scorsi sul terreno qualcosa di nero che si moveva, e fattomi più d’appresso, raffigurai uno spazzacamino raggricchiato e tremolante.
»Che cos’ hai, poverino, – gli chiesi ansiosamente – che cos’ hai?«
»Oh quel signore – mi rispose – sono un povero figliuolo che mi sento morire. Ho i piedi tutti a piaghe pe’ geloni, e camminando a stento, ho perduto di vista in sulla bass’ ora il mio padrone, che mi era davanti, e voleva menarmi a pigliar qualche ristoro, perchè mi sentivo tanto male. Ed io mi son trovato da per me; e non sapendo che cosa fare, e non avendo il coraggio di domandare ai signori che passavano del mio padrone Gian Antonio, mi sono strascinato fin qui tra questa nebbia. E qui le forze mi sono mancate, e mi sono disteso in terra ad aspettare che il Signore mi mandasse qualcheduno ad ajutarmi.«
»Vieni, vieni con me,« io soggiunsi, e riuscii il sollevarlo da terra. Il tapinello era a piedi ignudi, ed io m’avvidi al lume del fanale, che gli sanguinavano; onde, stracciato un fazzoletto, m’industriai a fargli due bende, e gliele ravvolsi attorno il meglio che seppi.
»Hai tu fame? – gli domandai – vuoi mangiare? vuoi bere qualche cosa?«
»No, no, il mio signore: è vero che è da questa mattina che non mangio: ma non ho fame, perchè mi sento tanto male. E in vece vorrei pregarlo che mi conducesse allo Spedale, dove ho sentito dire al mio paese e qui, che si ricoverano tutti i poveretti che sono ammalati. È lontano molto di qui lo Spedale?«
»No, figliuol mio, è qui vicino – io gli risposi, avvisando ch’ egli l’aveva pensata giusta. – Attáccati al mio braccio, e tira innanzi.«
»Il Signore gli renda questa carità – egli soggiunse pigliando un po’ di fiato. – È poco tempo ch’io sono quaggiù a Milano, e prima di partire dal paese mi ricordo che la mamma mi disse che, se avessi avuto il timor di Dio, avrei trovato anche quaggiù della buona gente, che mi avrebbe dato ajuto ne’ miei bisogni.«
E continuando la via, mi venne narrando la sua storia. Chiamavasi Carlo, figliuol di Gaudenzio della noce e della Maria della valle: il suo cognome non lo sapeva, e invano io mi studiai di fargli capire che intendessi per cognome. Aveva dodici anni: suo padre era un taglialegna d’un paesetto di Val Vegezzo (http://it.wikipedia.org/wiki/Val_Vigezzo), ampia valle e popolata di ameni villaggi, che comincia poco oltre Domodossola, e sbocca verso Canobbio sul Lago Maggiore, ed è, come tutti sanno la patria degli spazzacamini: il qual padre, secondo l’usanza dal paese, ea ciò costretto anche dalla povertà, avendo più figli e la moglie da sostentare, l’aveva mandato a Milano, affidandolo a un suo congiunto, perchè v’imparasse il mestiere dello spazzacamino.
Intanto giungemmo allo Spedal Maggiore (http://www.policlinico.mi.it/StoriaCultura/StoriaDellaCaGranda.html); ed io non saprei ridire i pensieri, che mi passarono pel capo nell’entrare a quell’ora, con quel compagno nel soggiorno di tanti dolori e di tante miserie. Venni dal portinaio introdotto a una sala, dove intorno a un gran fuoco stava conversando una brigatella di giovani medici addetti al servigio dell’ospizio. Chi parlava coll’accento della discussione, chi rideva, chi gridava, e non so perchè, ma quelle risa e que’ gridi lì sull’ atrio della sede d’ogni guaio, mi produssero una dolorosa impressione. Io però, mi preme dirlo, sono grande amico de’ giovani medici; ed invidio quella mirabile sicurezza ch’essi hanno del fatto loro, ed ammiro quella prontezza con che passano dalla celia al grave discorso, e quel loro calore nel discutere, e quella intrepidezza con che si recano nel cospetto del malore e della morte, pur mostrando di non aver l’animo indurato dalla lunga abitudine del contemplare le umane miserie; singolarmente rispetto in essi quella sollecitudine, che si prendono de’ meschini aflidati alle lor cure, e che deriva così da certo zelo di scienza ed amore dell’arte, come dalle inspirazioni di cuori benevoli e pietosi.
Al mio entrar nella sala con lo spazzacamino a braccio, la lieta brigata diede in un gran riso; ed io perdonai a que’ valorosi giovani siffatto scoppio di subitanea ilarità, perchè davvero di primo tratto dovette essere spettacolo un po’ ridevole quel mio comparir di botto tra loro insieme a tal compagno, tanto più ch’io non sono privilegiato d’un aspetto che inspiri molta venerazione. Ma appena io ebbi narrato il caso del mio spazzacamino, tutti mi furono intorno a interrogarmi con una cordiale sollecitudine; e tosto si diedero a tastare i polsi del poveretto, a visitargli i piedi, a fargli tutte le opportune domande, e in un batter d’occhio ogni cosa fu disposta, perchè quel meschino fosse raccolto ed assistito.
lo era per andarmene: ma lo spazzacamino mi chiamò e mi disse: »lo ho da pregarlo, il mio signore, d’un’ altra carità, ed è che voglia portarsi dal mio padrone Gian Antonio per avvisarlo di quel che mi è successo, onde quel pover’uomo non resti in agitazione per causa mia. Sta, come le ho detto, nel vicolo di San Giacomo, nella porta vicina a quella del falegname. A quest’ ora saranno tutti a letto, ma picchii e dica che son io che lo manda, e gli apriranno. Mi faccia, il mio signore, anche questa carità, e Dio gliela renderà con altrettanta salute e prosperità, qui e nell’ altro mondo.« Io gli dissi che avrei fatto il suo desiderio, e accommiatatomi dai bravi medici, mi posi in via pel luogo indicatomi dallo spazzacamino.





(Picture: policlinico.mi.it)




III.

Il vicolo di San Giacomo (pochi lo conoscono anche dei Milanesi) è una viuzza lurida, stretta, buia, che dal corso magnifico di Porta Nuova mette alla malinconica contrada di Borgospesso: viuzza fiancheggiata di poche casupole così meschine, che, chi le raffronta co’ sontuosi palazzi de’ nostri patrizi, onde s’adorna il vicin corso, è di necessità tratto a molti pensieri non lieti.
Erano tre ore circa di sera, quando io giunsi alla casa indicatami dal Carlino. La porta n’era chiusa, ma lo sportello aperto: io entrai, e veduto un lume a una finestra del cortile, mi v’appressai, e domandai a gran voce di Gian Antonio, spazzacamino. Un saliscendi s’aprì, e da un vicino uscio mi si fece dinanzi un uomo lungo lungo, che mi domandò che cosa volessi da lui a quell’ ora.
»Ho bisogno di parlarvi, galantuomo.«
»Di parlarmi a me?« rispose con voce incerta, e si scostò come uomo inquieto del fatto suo. Ma io lo rincorai subito, dicendogli ch’era mandato dal suo Carlino, e lo pregai che mi lasciasse entrare nella sua stanza, perchè lì alla serena mi sentiva intirizzire dal freddo.
Entrato, mi si affacciò allo sguardo una scena degna del pennello del Migliara (http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Migliara). Nel mezzo della stanza grande ed alta, in cui venni introdotto, era una tavola tutta sconnessa e traballante: sovr’essa lo spazzacamino posò una lucerna di ferro, al cui fioco chiarore io potei a poco a poco discernere gli oggetti circostanti fra la densa atmosfera di fuliggine che li cerchiava. Da principio, volgendo lo sguardo in giro, non vidi che un paio di dozzine a un bel circa d’occhi luccicanti tutti fissi sopra di me; poi riuscii a discernere le facce annerite, a cui quegli occhi appartenevano: facce vispe di ragazzini, facce rubizze d’uomini maturi, facce corrugate di vecchi; poi qualche cosa che s assomigliava a letti o cuccie, alcune distese sul suolo, altre appese alle pareti, come le brande delle navi, a più ordini a foggia de’ palchetti d’una libreria: e su queste cuccie, sotto copertacce di lana, le forme più o meno rilevate de’ corpi, su cui erano allogate quelle facce; e qua e là cenci, zoccoli, cappellacci, sacchi, scopette: e fra mezzo a un assito la ricchezza della colonia, vo’ dire il magazzino della fuliggine. Dopo codesta prima occhiata, i miei sguardi, continuando, per così esprimermi, a scoprir paese, si fermarono sopra un caminaccio, presso il quale vidi un paiuolo di polenta con qualche altro povero attrezzo da cucina: poi passarono sopra un armadio, ch’era probabilmente la guardaroba della compagnia, e su poche altre meschine masserizie: indi, errando dalle cuccie stipate l’una presso l’altra sul pavimento, a quelle sospese lungo le pareti, si fissarono alternativamente in quelle tali facce, i cui legittimi possessori, mi lanciavano certe occhiate inquiete e curiose, che volevano dire: Che cosa viene a far qui costui? Che affare importante può averlo condotto qui a sturbare i nostri sonni? Sentiamo che cosa dice al nostro capo.
Ma questa parola capo e la topografia stessa della stanzaccia che mi sono studiato descrivere, esigono ch’io venga ad alcuni schiarimenti prima di riferire il mio colloquio con Gian Antonio.
Più volte ho già adoperata la voce colonia per significare una compagnia di spazzacamini raccolti insieme, e davvero non ne saprei trovare un’ altra che ci vada più il cappello. La Valle Vegezzo, come ho accennato più sopra, n’è la madre patria, e di colà essi partono in frotte od alla spieciolata per condursi ad esercitare il loro mestiero nella Lombardia, nel Piemonte, in altre province d’ltalia ed anche in Francia. Partono sul finire dell’ autunno, e vi tornano al principio della state per lavorare le povere lor terre, e ristorare le famiglie col prodotto delle loro fatiche. Per consueto si raccolgono in compagnie di venti e sin di trenta tra fanciulli, giovanotti e uomini maturi: il più vecchio, secondo il costume patriarcale, ha nome ed autorità di capo della nomade colonia. A lui tocca di trovar tetto per tutti: egli è il tesoriere, il provveditor generale, il paciere e qualche volta il giudice della colonia; a lui vien confidato il deposito della fuliggine, e all’ epoca del ritorno al paese (così gli spazzacamini chiamano, come tutti i montanari, la loro patria) egli ne deve, secondo i patti prima convenuti, distribuir tante sacca a ciascuno de’suoi sudditi e confratelli: i giovanotti e gli uomini fatti si tengono per sè il denaro che per caso hanno in mancia, traendo a spazzare i camini per la città: i ragazzi lo consegnano al capo.
Egli deve provvedere al vitto comune, che consiste d’ordinario in pan di tritello e polenta; e a tal uopo ha facoltà di mettere a profitto il deposito della fuliggine ne’ casi d’estremo bisogno. Gli spazzacamini pel solito s’alzano alla prima aurora, e provveduti d’un tozzo di pane di tritello, o di pan di formentone, prendono a correre la città, in busca di lavoro. Ma prima recansi a qualche chiesa per ascoltarvi la messa; ed è una dolcezza vederli in ginocchio innanzi agli altari, fra quell’ altra turba di muratori e d’artigiani d’ogni specie, di rivenduglioli, di donnicciuole; è una consolazione vederli assistere con tanto fervore ad una di quelle prime messe, a cui siete sicuri che non interviene nè un ipocrita, nè un derisore, e che discordano al tutto da certe profumate teatrali messe pomeridiane, nobile trastullo di qualche capitale d’ Europa; vederli assistere a quelle messe del povero, per cui la fede è pur sempre il più prezioso tesoro, e che solo in essa trova un conforto a tutti que’ mali, ond’ è aggravato da questo mondo frivolo e distratto, che spesso osa mettere in deriso la pia di lui fiducia. Tutti poi la sera si raccolgono intorno al lor povero desco, dove il capo ammannisce loro la consueta polenta; è rado ch’ essi mangino carne od altro: ma certo non manca loro mai nè l’appetito, nè l’allegria, che talvolta viene destata più viva da qualche bicchieretto di vino. Finito il pasto, il capo intuona il rosario pe’ poveri morti, quel devoto salterio degli ignoranti, per usare una bella parola d’un santo prete; indi tutti se ne vanno a dormire su quelle lor cuccie che vi descrissi: vanno a dormire d’un sonno senza sogni, o almeno senza scompigliati sogni, di quel sonno cosi riposato, che è forse quaggiù la ricompensa più dolce della vita operosa.









IV.

Gian Antonio introdotto che m’ebbe nella sua stanza, prese tosto ad interrogarmi con molta sollecitudine del suo Carlino. I giacenti sulle cuccie, udito di che si parlava, s’alzarono tutti a sedere, e diedero attentamente orecchio al racconto ch’io feci del caso di quel povero ragazzetto. Com’ebbi finito, fu un grido generale di voci sonore, stridule, rauche, acute a ringraziarmi della mia carità, nè io mi ricordo d’aver udito musica, che mi fosse più grata di quelle voci discordi. Cessato il bisbiglio, il capo tolse a parlare così:
»L’è una provvidenza, il mio signore, l’è una vera provvidenza questa: l’è una grazia dei poveri morti, che quel figliuolo non sia andato a pericolare. A dire che noi l’abbiamo cercato per più di due ore, e mai non l’abbiamo potuto ritrovare in nessun luogo! Se sapesse con che crepacuore siamo andati a notificarlo al Circondario della Polizia! Ma come si fa adesso ad avvisare quelli che sono intorno a cercarlo ancora colla sua mamma?«
»Che dite voi della sua mamma? – io l’interruppi – sta forse qui a Milano la mamma di quel figliuolo?«
»Oh giusto! non la sta qui, ma la sta al paese; e non l’è arrivata che oggi alla bass’ ora, e la si è voluta disperare, quando ha sentito quello che era successo. Se dico io, che l’è una grazia dei poveri morti benedetti!«
»Ma che cosa è venuta a far qui a Milano la madre del vostro Carlino?«
»L’è venuta per prenderlo con un altro suo figliuolo maggiore; l’è venuta per ricondurlo al paese, perchè al suo uomo sono succedute delle cose grandi, ed ha finito di penare e di far la vita miserabile; che ne sia ringraziato il Signore, perchè e lui e la Maria la meritavano proprio questa fortuna!«
»Oh! dite su: che cosa gli è mai succeduto?«
»Una fortuna, un vero colpo di fortuna. Ha da sapere, il mio signore, che molti di noi altri di Val Vegezzo vanno a fare il mestiere in Francia. Sono quasi sempre i più disinvolti, ma son quelli ancora che amano meno il paese; perchè quando una volta sono andati laggiù, non ne ritornano per anni ed anni; e già chi ama il paese, non ne può vivere lontano un pezzo; e per me mi lascerei fare non so che cosa piuttosto che stare quaggiù, quando ritornano a rinverdir le foglie. Ma molti non sono di questo parere; e vanno dunque in Francia, e sono quelli che fanno fortuna: perchè là d’ordinario avviano qualche negozietto, oltre al fare lo spazzacamino. Alcuni vendono, per esempio, aghi e spilli; ed era questo un commercio che una volta facevamo anche noi qui, ma l’abbiamo dismesso quasi tutti, perchè non ci trovavamo più il guadagno: alcuni vendono paste fritte, o fanno il brueiatajo, o il facchino, o servono ai signori di mezza tacca: mestieraccio questo, ch io non vorrei fare per tutto l’oro del mondo. E colà anche i nostri son chiamati Savojardi, come se fossero anch’ essi della Savoja, di dove piove giù in Francia il numero più grande di spazzacamini. Ed è questa un’ altra ragione, per cui io non sarei mai andato in Francia per un Perù; perchè, domando io, che cos’ è questo levare alla gente il nome del proprio paese? Mi par che sia come a levare a uno il suo nome di battesimo. Io sono Gian Antonio, e non posso essere nè Carlo, nè Battista; e così chi è di Val Vegezzo, ha da esser chiamato sempre di Val Vegezzo, che è una vallata che non ha invidia della Savoja, dove non ci sono che monti nudi, come il mio palmo, e sassi e deserti Non ho ragione io? Ma questo lo dico così per dire, e per farle capire che noi spazzacamini in generale vogliamo bene al nostro paese. E dunque… Ma mi dimenticava di dirle un’ altra cosa; ed è che molti de’ nostri laggiù in Francia, dopo aver fatto un pezzo lo spazzacamino, si mettono a quel mestiero di levare il fumo a’ camini; che già, secondo me, l’è una mezza impostura; perchè l’aria è l’aria, e la vuol passare dove le piace; e come si fa a comandarle che la passi di qua o di là? Ma laggiù in Francia questo mestiero è in molto credito, e quelli che lo fanno, si chiamano i fumisti, e guadagnano de’bei soldi, e se hanno giudizio, arrivano a far fortuna, e tornano poi al paese a vivere da signori. Ora un fratello di messer Gaudenzio, padre del Carlino, è mo proprio stato un di questi fortunati, perchè fra una cosa e l’altra e l’altra, a furia di risparmi, è riuscito a metter insieme del ben di Dio. Ma non era destinato che campasse tanto da venire a casa a goderlo. Ed è morto (Dio abbia l’anima sua) a Parigi, saranno tre mesi. Ed ha fatto testamento, e quei che comandano in quel paese, l’hanno notificato al sindaco del nostro. Ed ha nominato erede suo fratello Gaudenzio, ed ha lasciato tanto denaro da fargli gettar via gli stracci e la scure, e da farlo diventare un de’ primi signori di Val Vegezzo; che Dio lo benedica, perchè saprà fare il signore da galantuomo, avendo imparato anch’egli, che cosa voglia dire andar giù col sole, e patire qualche volta la fame.«
»E così dunque il Carlino – saltò su un garzoncello, che sedeva sulla cuccia più vicina alla tavola – tornerà al paese con sua madre, e non farà più lo spazzacamino?«
»Sicuro – continuò il capo – e diventerà un bravo giovine, e lo faranno studiare, e forse si farà prete; e chi sa, che qualcuno di voi non abbia da sentire la sua prima messa? Io no, pover’uomo, perché son vecchio, e poco mi resta da stare quaggiù.«
»Oh! non dite così, galantuomo – io l’interruppi – voi mostrate tal vigore di corpo da durarla ancora molti anni contro gli stenti e la fatica.«
»No, no, – il mio signore – riprese Gian Antonio – so io quel che dico. Vorrei solo che la morte mi cogliesse in un buon momento, e là al paese nella mia casetta, a più del monte dei castani. E un’ altra cosa desidero, ed è di veder prima ben collocato questo mio nipote, quel figliuoletto lì che ha parlato; l’unico che mi resti di sette che ne avevo, e che il Signore ha chiamati con sè insieme al padre loro e alla sua donna ch’era una mia sorella. Del resto, io son pronto ad andarmene. Non è più un mondo per me quello di questi tempi. Vanno mettendosi su certe usanze!… si fanno certe invenzioni!… lo sono un ignorante; ma non capisco che bene ne possa venire dal levare il pan di bocca alla povera gente, come si va facendo a noi altri poveri spazzacamini con tutte quelle storie delle stufe e dei francolini, e delle canne de’ camini così strette, che non ci passerebbe un topo. Basta: non tocca a noi ignoranti di criticare; ma mi pare che queste cose non vadano bene.«
lo era per rispondere a Gian Antonio, e per isciorinargli chi sa che ragioni nuove e lampanti in favor delle stufe, dei franklin (http://en.wikipedia.org/wiki/Franklin_stove) e del nostro evidentissimo progresso morale-economico-industriale-scientifico-civile; ma ne venni impedito dall’ entrar nella stanza di altre persone.









V.

Erano la madre del Carlino e il suo figlio maggiore con due spazzacamini, che gli aveano accompagnati nella loro dolorosa ricerca. lo non ho veduto mai, come sul volto di quella donna, una così commovente espressione del dolore materno. Entrata nella stanza, rivolse tosto uno sguardo intorno, che la corse tutta; e fu uno sguardo che significava la più fervida speranza, la più viva ansietà. Ma poichè non vi trovò quel volto, che solo allora desiderava di vedere, si ritrasse verso l’estremità della tavola, e restò immobile senza parole, senza sguardi, colle mani giunte sul petto in atto di pregare. lo era tanto assorto nella contemplazione di quel dolore così nobile, così schietto, così rassegnato, che quasi mi dimenticava ch’era in poter mio d’alleviarlo. Gian Antonio mi guardava fisso, come se volesse dirmi: »Parli; io voglio lasciare a lui il piacere di consolare questa povera donna;« e tutti gli altri spazzacamini, de’ quali, alcuni alzatisi dalle cuccie, e gittatisi intorno i lor cenci erano venuti a cerchiare la tavola, altri stavano ancora a sedere sui letti, mostravano ne’ loro volti quell’ ansietà, che nasce dall’ aspettazione d’una scena commovente. Ma questo fu l’affar d’un momento; e il capo, vedendo ch’io non mi risolveva a parlare, s’accostò alla donna, e le disse: »Consolatevi, o Maria: il Signore v’ha fatta la grazia: il vostro Carlino è trovato.«
La povera madre diè un grido, un grido che significò ogni cosa, l’amore, la gioia, la riconoscenza, tutti i più cari affetti d’un cuore materno; e come guidata da un istinto sicuro si rivolse a me, gridando: »Oh! dov’è il mio figliuolo? dov’è il mio Carlino? mi dia, quel signore, mi dia il mio Carlino!«
Qui fu una commozione generale in tutti i presenti. Chi gridava, chi rideva, chi piangeva; e vi so dir io, miei sensibili leggitori, ch’era un delizioso spettacolo vedere a scorrere le lagrime sulla faccia scialba di quella povera madre, sulla faccia severa di Gian Antonio, ogni cui ruga era una storia di fatiche e di patimenti. All’ultimo il capo riprese a parlare, e pregò me che narrassi il caso di Carlino; ed io lo narrai alla meglio, e finii col porgere i maggiori conforti che seppi a quella madre afllitta sullo stato del suo figliuolo.
»Oh il mio signore – entrò allora a dire la Maria – come posso fare io a ringraziarlo della sua carità? Ma mi dica, come sta il mio Carlino? Potrò io vederlo stasera prima d’andare a dormire?«
»Siate pur sicura – io le risposi – che il vostro Carlino è in luogo dove sarà assistito con tutta la premura e la carità. Il suo male, a quel che me ne hanno detto i medici, è un mal di poco e passeggiero: una febbricciatola di ventiquattr’ore al più; e quanto ai geloni, sapete ch’è un dei mali de’ fanciulli. Ma stasera voi non lo potete vedere, perchè di sera non è permesso entrare nello Spedale.«
»Oh poveretta me! E dovrò dunque aspettare sino a domani mattina a vederlo, a baciarlo, quel mio caro Carlino! Pazienza! La Madonna m’ajuterà a passare tranquillamente tante ore, che mi pareranno ben lunghe. Se sapesse il ben ch’io voglio a quel mio figliuolo! È l’ultimo ch’io ho messo al mondo: e già dicono che ai primi e agli ultimi si vuole maggior bene che agli altri. Io però voglio bene a tutti i miei figliuoli, e lo può dire qui il Franceschino. E sanno tutti che stringhe abbiamo fatto della nostra pelle per loro, io e il mio uomo: quel povero Gaudenzio, che, se fosse qui saprebbe ben trovare delle parole più pulite delle mie per ringraziarlo, il mio signore, della sua carità. Ed ora è principalmente pei nostri figliuoli che noi siamo contenti di quella grazia di Dio che ci ha lasciato il fratello del mio uomo, che Dio l’abbia in gloria. Ma il Carlino! ah il Carlino, così fanciullo ancora, così buono e caro, è proprio quello che ci preme di più. Poveretto! Egli ha cominciato prima degli altri a patire, a far la vita dura, perchè il Signore ce l’ha dato in tempo che non sapevamo già più da che parte voltarci nella nostra miseria; ed ora sarei tutta contenta, se potesse ristorarsi subito con questa provvidenza di Dio. Mi pare cento anni che non lo vedo. Ditemi, Gian Antonio: è cresciuto quel povero figliuolo? è venuto su bene?«
»Oh si, benone: è dell’età, come sapete, del mio nipote Battistino, ed è già più grande di lui mezza spanna. Forse adesso lo troverete un po’ tristo di ciera, perchè quel malanno de’ geloni lo ha fatto molto patire. Ma se l’aveste veduto al principio di quest’inverno, sino a Natale, pareva un fiore, tant’era bianco e rosso.
Io risi fra me e me di questa similitudine, che davvero applicata alla faccia d’uno spazzacamino deve sembrare un po’ strana. E intanto la buona donna continuava:
»Me l’hanno detto quei che vennero al paese a farle feste. E m’hanno pur raccontato, che voi ne eravate tanto contento, e che cresceva così bene nel santo timor di Dio…«
»Sì, sì, è vero – sorsero a dire più voci – è un angioletto il vostro Carlino, un figliuol d’oro, è il beniamino di tutti.«
»Noi ci vogliamo bene come due fratelli – saltò su Battistino – e se sapeste come mi rincresce che se ne vada via! Ma al paese ci verrò anch’ io, e lo potrà vedere là, e saremo sempre amici; n’è vero?«
La buona Maria corse alla cuccia del ragazzetto, e se lo strinse al seno, e lo baciò con quella tenerezza, con che avrebbe stretto e baciato il suo Carlino. Indi proseguì:
»lo v’ho da ringraziare, compar Gian Antonio, di tutto quello che avete fatto pel mio figliuolo. So le mie obbligazioni, e voi vedrete… basta, so io quello che ho in mente. Ma per ora non vi dico altro, perchè ho troppa ansietà in cuore; e già finchè io non me lo sia stretto fra le braccia, non crederò d’averlo riavuto il mio Carlino. Ecco qui come fa il Signore ad avvisarci che non bisogna insuperbirsi e rallegrarsi troppo della prosperità: ci manda insieme qualche tribolazione per metterci alla prova, per vedere se abbiamo pazienza, e per farci ricordare di Lui.«
»Beata voi – io la interruppi – beata voi che avete di questi sentimenti! Il Signore non vi abbandonerà mai, e voi troverete sempre nel vostro cuore quel coraggio e quella rassegnazione, di che potrete aver bisogno in qualunque condizione di vita.«
E si continuò a parlare per un pezzo su questo tenore. La Maria mi confidò tutti i suoi disegni, tutti i disegni di suo marito: Gian Antonio mi aprì tutti i suoi pensieri, tutte le sue riflessioni morali sul mondo e sulle cose con una fiducia, con una schiettezza, che mi fece per la prima volta in mia vita essere contento di me medesimo, nell’idea che quelle buone genti non rifuggivano dal riversar nella mia tutta l’anima loro. Finalmente io gettai un motto del bisogno, che doveano avere i miei nuovi amici di riposare. Gian Antonio si profferse ad accompagnare la Maria e il suo figliuolo in luogo, dove avrebbero trovato da alloggiar quella notte: ed io, consolata di nuovo quella buona madre, ed auguratole ogni bene, strinsi cordialmente la mano di Gian Antonio, e me ne andai, salutato festosamente da tutta la brigata; me ne andai a segnare quella giornata fra le più liete della mia vita.





(Picture: pettinarolimapsandprints.com)




VI.

Un anno e mezzo dopo, una domenica del mese di aprile io passeggiava solitario sotto i viali della Piazza d’Armi, le cui piante cominciavano a rinverdire e a mettere i primi fiori. Il sole piegava al tramonto, ed io mi era un istante fermato a salutarne gli ultimi raggi, che battevano su quegli stupendi cavalli di bronzo dell’ Arco della Pace (http://it.wikipedia.org/wiki/Arco_della_Pace); monumento d’una grandezza che brillò splendida come il sole, e disparve rapidamente come una meteora. E già io m’ingolfava al mio solito in malinconiche riflessioni, quando ne venni distratto da due spazzacamini, che mi si accostarono in atto di volermi parlare. Guardatili, riconobbi in essi Gian Antonio e il suo nipote Battistino.
»Scusi – prese a dire il capo – se veniamo a disturbarlo. Era un pezzo che le tenevamo dietro dalla lunga: Battistino diceva: È lui; ma a me non pareva sicuro, perchè non ho la vista buona di quand’ era giovine. E poi non l’ho veduto che una volta di notte; ma adesso che lo vedo da vicino, sono sicuro di non prenderlo in isbaglio. Si ricorderà bene di quella sera…«
»Sì, me ne ricordo benissimo, Gian Antonio; e appunto aveva proprio una gran voglia di sapere che cosa fosse accaduto di quel Carlino: intesi da un medico, mio amico, che egli uscì tosto dallo Spedale, ma non ne riseppi altro.«
»Noi cercammo della sua persona per mare e per terra, ma non ci potemmo trovare il verso. Quel povero figliuolo avrebbe voluto ringraziarlo prima di partire della sua carità, e adesso…«
»E adesso, dove si trova?« chiesi io con ansietà, veduto che Gian Antonio chinava il capo in atto d’uomo che sta per dare una dolorosa notizia.
»Adesso si trova in luogo, dove sta più bene di tutti noi, e dove pregherà per lui e per me. Il povero Carlino è morto.«
»Morto! che dite? quando? come?«
»L’è una storia malinconica, ma corta. Parti di qui con sua madre, appena uscito dallo Spedale, e tornò al paese. Per quasi tutto l’anno passato, i suoi ebbero un gran da fare per la faccenda dell’eredità, e lo lasciarono quieto. Quando noi fummo a casa la state passata, lo trovammo sano e vispo e allegro come un pesce. E si ricordò anche di quella tal sera, e ci domandò di lui, e ci disse di salutarlo, se mai c’incontravamo a vederlo. Povero Carlino! aveva un gran buon cuore; ed è un peccato che abbia finito così. E dunque, come le diceva, lo lasciarono quieto sin presso a quest’ inverno; ma quando messer Gaudenzio si fu sbrigato degli impicci dell’ eredità, tutti gli furono attorno a persuaderlo che lo mettesse a studiare. Diventerà questo, diventerà quello: chi ne diceva una, e chi un’ altra: messer Gaudenzio diede ascolto a quella gente, e Carlino fu posto in casa d’un curato della valle, perchè cominciasse a imparare a leggere e scrivere. Il Carlino non voleva, e andava dicendo che i libri gli mettevano malinconia, e che lo lasciassero muoversi e andar su pei monti, che quello era il suo piacere. Ma egli ebbe un bel dire e un bel piangere, che non gli diedero retta, perchè s’erano fissi di cavarne fuori un dottore. Qualcuni che lo videro nel primo mese ch’era là dal curato, mi contarono che non sapeva adattarsi a quella vita. E già capisco anch’io, che per un figliuolo, che sino a dodici anni non ha visto mai il cartone di un libro, la dev’ esser dura quella di stare delle ore e delle ore inchiodato sopra una seranna a studiare l’abbiccì. Due volte il Carlino scappò dalla casa del curato, e tornò a casa sua, piangendo e gridando che voleva piuttosto fare lo spazzacamino, che seguitar quella vita. Non gli vollero dar retta ancora, e fu costretto a tornar col naso sui libri. A poco a poco, non imparando niente, e non si movendo mai, cominciò a smagrire, a perdere la voglia di tutto. Uccello di bosco, dice il proverbio, non può diventare uccello di gabbia. E già bisogna anche pensare che quel signor curato non lo sapesse pigliare pel verso giusto: fors’ è di quegli uomini, che voglion vedere a dirittura dei miracoli. Fatto è, che non passarono due mesi, che il poverino ammalò gravemente di un certo brutto male, di cui non mi ricordo il nome; ed è morto, che saranno due settimane.«
»E sua madre! povera donna!«
»Sua madre ha voluto morire anche lei del dolore, e va dicendo che è meglio la povertà senza tanti pensieri in testa, che la ricchezza con tanti crucci e tante ansietà. Ora m’hanno fatto dire che vada a casa, e conduca loro il mio Battistino; che gli vogliono far del bene per amore di quel poveretto ch è morto. Ed io conto di partir presto, ed ho piacere di averlo trovato ancora una volta, perchè già non so, s’io tornerò più quaggiù. Ma il mio Battistino lo lasceranno fare a modo suo, perchè io sono persuaso, che non s’ha da costringere la volontà di nessuno; e già quando uno non è chiamato per una strada, è un matto quegli che gliela vuole far prendere per forza. Per me, sono più contento d’aver fatto lo spazzacamino fino a quest’ età, che se mi fossi guadagnati tutti i tesori di questo mondo con iscapito della mia quiete.«

*

Ed ecco finita la mia novella degli Spazzacamini; la quale sto certo che, secondo alcuni, avrebbe dovuto finire molto diversamente. Ma io non l’ho finita così per una mia bizzarria, ma sibbene per servire alla verità, perchè questa la è una novella storica in tutto il rigore del termine. lo sarei ben contento d’avervela raccontata, miei cari lettori, se potessi sperare ch’essa varrà a farvi guardare con un occhio più indulgente e compassionevole i poveri spazzacamini.










Compare also Amanzia Guerillot Inganni (1828-1905): Veduta del Duomo di Milano dal portico del Robecchino, con vari personaggi e scenette di genere
(once seen on: capitoliumart.it)

(Picture: piccolacriticadarte.wordpress.com)

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Zuletzt geändert am 15 Juni 2015 11:14 Uhr
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